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Vendemmie d’Abruzzo anni ’70: storie di famiglia, vino e tradizione

  • Immagine del redattore: Anastasia Centofanti
    Anastasia Centofanti
  • 18 ago
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 6 giorni fa

Le prime luci del mattino accarezzavano le colline d’Abruzzo, e nell’aria già si percepiva il profumo dolce e acre dell’uva matura. Tra i filari di Montepulciano e Trebbiano correvo scalzo, gli occhi spalancati e il cuore pieno di meraviglia. Mio nonno indicava i grappoli da lasciare sulla vite, quelli che ancora non avevano raggiunto i gradi giusti: un gesto attento, perché l’uva acerba significava meno zucchero… e quindi meno soldi al momento della consegna in cantina sociale.


Mio padre, Cataldo, e mia madre, Lucia, con le mani sollevate tra i filari, raccoglievano con cura ogni acino pronto per essere trasformato in vino.

Accanto a loro c’era mia nonna Nicoletta, una vera “ruspa” tra i filari, così ci piaceva chiamarla in famiglia, in un attimo raccoglieva quintali d’uva con una forza e una rapidità che lasciavano tutti a bocca aperta. Noi bambini cercavamo di starle dietro, ridendo, mentre lei continuava a riempire secchio dopo secchio, instancabile e felice. 


Nonna Nicoletta (aka "la ruspa")
Nonna Nicoletta (aka "la ruspa")

Erano gli anni ’70 ed io ero un bambino. Mio nonno, che portava il mio stesso nome, Piacentino, aveva deciso di fare qualche soldo dopo la guerra, convertendo le terre distrutte  o persino minate dai nazisti  in vigneti rigogliosi. Non produceva solo uva da tavola, ma anche da vino: una piccola parte la destinava a fare il vino che vendeva personalmente in città, mentre la restante veniva conferita alla cantina sociale del paese, Giuliano Teatino.


Ma se chiudo gli occhi e penso a quel periodo, un ricordo affiora in modo nitido: una signora del paese, il cui nome mi sfugge, o forse non l’ho mai saputo, che arrivava con il suo carretto carico d’uva trainato da un asinello. Per pesare il carico doveva salire sulla pesa… ma l’asinello, testardo e irriverente, non voleva stare fermo. Faceva avanti e indietro goffamente, tra le risate di noi bambini che cercavamo di convincerlo con qualche esortazione e tanta buona volontà.


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Nella cantina sociale in effetti si controllava l’uva non solo tramite la pesa, così famigerata per l’asinello, ma anche tramite il grado zuccherino. Alcuni grappoli fungevano da campioni e venivano spremuti per farne uscire il succo da misurare per capirne la gradazione zuccherina, così si stabiliva quanto denaro spettava per il raccolto.


Ogni momento era un piccolo miracolo quotidiano: i grappoli dorati o viola pendenti tra i filari, il profumo della terra e dell’uva, mani e volti macchiati di succo e polvere, il sole che scaldava le spalle e illuminava i sorrisi di chi lavorava insieme. La vendemmia non era solo lavoro: era un legame profondo con la terra, un modo per capire che la pazienza e la cura di ogni gesto avrebbero regalato un vino capace di raccontare la nostra storia.


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Le vendemmie degli anni ’70 non erano solo ricordi: erano la testimonianza viva della passione di mio nonno, di mio padre e mia madre, di mia nonna Nicoletta e di tutta la famiglia. Un’eredità fatta di mani esperte, sorrisi, sacrifici e amore per la terra, che ancora oggi ispira chi lavora tra i filari e chi degusta un bicchiere di vino d’Abruzzo.



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